mercoledì 6 febbraio 2013

La scarsità come condizionamento sociale

  Miseria e frustrazione sono matrici capaci di creare, mantenere, espandere e replicare emozioni in grado di sconnettere l'individuo dal suo io più profondo e dalla fonte di energia spirituale, lasciandolo in PREDA agli stimoli esterni.
Più o meno aprivo così il capitolo “La decadenza sistemica” del libro “Il nuovo spirito dell'attivista”. 


  • Che cosa significa quando un individuo è in preda agli stimoli esterni?
  • Come si diventa preda di uno stimolo esterno?   
  • Come fa uno stimolo esterno a diventare predatore?   Cosa si mangia quel predatore?
  • Chi o cosa è capace di concepire un predatore feroce al punto da rappresentare validamente la violenza, di chi sceglie di finire fra i suoi denti pur di non riconoscersi allo specchio?
  • Chi riesce ad ipotizzare che essere preda sia una scelta inconscia, una strategia sottile, per darsi il permesso di negare l'esistenza dei propri denti aguzzi, artigli affilati, e desiderio di cannibalismo?
  • Chi è capace di accorgersi che le prede nascondono certe realtà dentro sé, perché è esattamente là che esse stesse non andrebbero mai a cercare?
  • Chi è capace di guardare a ciò che ormai è considerato come comportamento quotidiano, popolare, condiviso dalla società, come ad una delle più contorte perversioni che si siano mai viste sulla faccia del pianeta?
  • Chi è capace di cominciare a vigilare su se stesso e continuare a farlo giorno dopo giorno, senza cedere ai quotidiani tentativi del circostante, di convincerci che in fondo “mal comune mezzo gaudio”, che siccome “così fan tutti”, che “dal momento che l'economia è legge”, sia maturo diventare parte integrante ed integrata di questa perversione?
  • Chi è capace di rispondere quotidianamente a questa perversione istituita a legge, senza sviluppare delle nevrosi in grado di sabotare la genuinità del suo relazionarsi con il prossimo, e senza sviluppare delle ideologie o contrazioni dello spirito che lo spingono a semplificare i rapporti in due macrocategorie: o amico o nemico?

Magari un giorno ne fosse capace l'uomo comune, il cittadino! Magari ci fosse una società intera di cittadini in grado di rispondere in modo veritiero a queste domande! Magari la società fosse capace di guardarsi allo specchio! Magari ci fosse una civiltà in grado di comprendere profondamente il valore spirituale della RELAZIONE, della DIVERSITA', del RAPPORTO CON L' ALTERITA' cioè con ciò che è diverso da sé! Magari si comprendesse fino in fondo come tutto ciò sia INTRINSECAMENTE LEGATO con la crescita personale! Solo allora, probabilmente, si potrebbe parlare con ragione di CIVILTA'!

Ma in una società che è intrinsecamente BARBARA, dove gli stessi PROMOTERS della crescita personale devono scegliere se dare la priorità al valore più profondo della relazione, o a quello della parcella che dà loro la pagnotta, in una società dove per sopravvivere si è obbligati a scegliere la seconda opzione, e la parola scelta è solo il suono che maschera il condizionamento beh…per i PROFESSIONISTI DELLA CRESCITA PERSONALE è d’obbligo essere profondamente consapevoli dei condizionamenti ai quali non hanno il potere di sottrarsi, ed anche di dichiararli al cliente. E’ una questione di qualità.
Il condizionamento dal quale nessuno può sottrarsi è la scarsità. Quindi chi si occupa di crescita personale DEVE fare i conti con miseria, frustrazione e scarsità. Pensare di lasciarsele alle spalle, e continuare ad aiutare gli altri, è una mera illusione, perché chi ha bisogno d’aiuto vive queste condizioni, e chi aiuta veramente deve comprendere prima il punto di vista di chi è bisognoso d’aiuto, e poi offrirne uno nuovo, non viceversa. La comprensione di un punto di vista non può essere solo una questione concettuale e di linguaggio verbale, necessita di compassione. Non parliamo della compassione che compatisce, ma della compassione di chi è capace di immedesimarsi nelle emozioni dell’altro. C’è differenza tra compassione e buonismo. La prima onora la relazione, il secondo la parcella.


Nella cosiddetta relazione d’aiuto inoltre: 

  • dov’è il confine tra aiutante ed aiutato? 
  • Se quel confine c’è, chi o cosa lo traccia? 
  • A quale scopo?
  • Quello scopo da cosa è legittimato?  

Molte persone fanno i terapisti e cercano nei clienti i blocchi energetici che li frustrano e li rendono dominati da qualcosa o qualcuno: un trauma, una situazione irrisolta, un problema non elaborato bene. La negazione di una ferita, di un dolore, o della superficialità con cui perpetriamo atteggiamenti dannosi per il prossimo, perché ci danno da mangiare, da sopravvivere; è un’autolimitazione talmente funzionale che neanche un PROFESSIONISTA DELLA CRESCITA PERSONALE riesce ad individuala dentro sé. Spesso non riesce a trovarla proprio perché si considera così: PROFESSIONISTA.  


  • Se per essere PROFESSIONALI siamo costretti a delle negazioni, chi o cosa ci manipola? 
  • Di chi o cosa siamo schiavi?
  • Se per fare i PROFESSIONISTI DELLA CRESCITA PERSONALE ci costringiamo a negazioni su noi stessi e sul nostro comportamento, chi o cosa ci spaventa al punto da farci fingere che non esista?  


Ognuno può tentare di dare le sue risposte, io provo a proporne un poche: Quando un individuo è preda degli stimoli esterni significa che ha paura di sé stesso, che non riesce a riconoscersi per come effettivamente è. La distorsione esistente fra come egli è realmente e come si percepisce è talmente alta da renderlo dipendente da persone, eventi, situazioni, cose e prodotti che possono continuamente riconfermare quell’immagine che la persona ha e vuole avere di sé stessa. Quell’immagine è in perenne evanescenza, instabile, insicura, perché fittizia, un vero e proprio ologramma dello spirito nato dalla rinuncia all’esplorazione del proprio centro, dalla dimenticanza della propria forza interiore. Figuriamoci se in una condizione simile l’individuo può riuscire a vedere nell’alterità un’occasione di rinnovo e trasformazione dell’identità. 
Se gli stimoli esterni sono perenni, violenti, e tolgono lo spazio per il silenzio, la calma, la pace, la tranquillità, la lentezza, se spezzano le idee in pensierini talmente frammentati e superficiali da non saper scalfire neanche le apparenze del fondo tinta di Emilio Fede, allora quegli stimoli diventano predatori del nostro senso della vita. Se quegli stimoli esterni ci frammentano il pensare al punto da toglierci la capacità di essere consapevoli di come la scarsità ci sta rendendo TUTTI degli esasperati all’inseguimento del denaro (tanto o poco non fa differenza), allora la nostra anima è già tra i denti del predatore e, le nostre PROFESSIONALITA’, sono gli alibi irrinunciabili di chi ha bisogno di negare il proprio spirito, per poter reggere di fronte alle proprie azioni quotidiane. Se potessimo osservare le azioni che facciamo tutti i giorni, con la consapevolezza olistica del nostro spirito, ci vergogneremmo di noi stessi. D’altro canto, se decidessimo in favore di un rovesciamento di tendenza, ci renderemmo immediatamente conto dei giganti ostili, dei quali le dimensioni ci farebbero perdere la fiducia che sia possibile cambiare il mondo, nonostante la loro presenza. Così, bloccati tra la vergogna e la paura, ricacciamo il nostro spirito nel nostro oblio interiore e tiriamo avanti, raccontandoci le scuse più disparate, ma la verità è che nella sfiducia di poter contribuire ad un cambiamento collettivo, abbiamo rinunciato a rinascere dalle  nostre ceneri. Dovremmo recuperare il coraggio di lasciare che la consapevolezza più profonda che abbiamo incenerisca le false immagini di noi stessi, ed è interessante che, solitamente, tale possibilità sia facilitata dalla relazione, e da un sano atteggiamento nei confronti della stessa.  


Tutti i confini che vengono tracciati tra amico e nemico, tra preda e predatore, tra cittadini e governanti, tra bene e male, tra buoni e cattivi, tra cultura e barbarie, tra democrazia e dittatura, tra terapista e cliente, sono confini funzionali a trasformare spiritualità e relazione nell’ennesimo stimolo esterno, ennesimo surrogato, ennesimo prodotto. Questo ricatto dell’era del mercato, della vetrina e della mercificazione non aiuta a comprendere che tutti questi estremi sono lati di un’unica medaglia, sintomi di un’unica malattia collettiva della quale siamo tutti inconsapevoli agenti, e quella malattia si chiama ASSENZA DI SPAZIO, ovvero VIOLENZA.
Nel disperato tentativo di promuovere ciò che personalmente riteniamo sia BENE, e di difenderlo da ciò che personalmente riteniamo MALE, togliamo spazio ai conflitti tra le diversità, che in questo modo non riescono ad esprimere pienamente la propria visione del mondo e, come conseguenza, non possono neanche offrirci la possibilità di integrarla. Siamo stati tutti educati ad identificarci nei nostri sistemi di valori, e ci sentiamo legittimati a chiudere gli altri in anguste scatolette ed etichette ogni qualvolta riteniamo che difendere quei valori sia BENE. Il nostro senso d’identità è costruito in modo talmente superficiale che non ci accorgiamo di difendere quei valori perché ci sembrerebbe di morire perdendoli. Tutte le nostre fedi, le nostre visioni del sovrasensibile, i nostri veggenti ed illuminati, tutte le lauree, i corsi e gli attestati, non servono però ad evitare gli esiti scontati di questo malcostume, che rappresenta degnamente il valore dell’occidente, lo zeitgeist, la tendenza: mancanza di spazio per il conflitto creatore, incapacità di relazionarsi serenamente con l’alterità, difesa di surrogati d’identità e difesa del territorio, scarsa presenza del proprio spirito. In una parola: macrostress.

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